domenica 13 aprile 2014

PASTORIUS E SCOFIELD TOGETHER

Nell'attesa di dedicarmi a questo blog come vorrei, e scrivere qualche post decente vi propongo il video di una fantastica collaborazione tra due musicisti che amo immensamente.

giovedì 20 marzo 2014

I VINILI DI MAGAR: QUICKSILVER MESSENGER SERVICE - HAPPY TRAILS

Ho il piacere e l'onore di ospitare  il mio amico Magar ed i suoi preziosi vinili. Questa è la volta  di Happy Trails dei Quicksliver Messenger Service. Un album del 1969, etichetta CAPITOL RECORDS



Parlare dei Quicksilver Messenger Service, è come aprire la scatola delle meraviglie. Una scatola che era ubicata nella Bay Area, e più precisamente in quel di San Francisco, vero e proprio catalizzatore del movimento Psychedelico post Summer of Love.
Sono stati sicuramente la Band più originale ed innovativa di quel periodo, e non è poco se considerate i nomi con i quali confrontarli. La loro è una storia travagliata, fatta di grande musica e di peripezie di ogni genere, compresi svariati cambi di formazione.
"I Quicksilver Messenger Service si formarono nel clima culturale e musicale della San Francisco della metà degli anni sessanta, originariamente animati dal chitarrista Dino Valenti che aveva radunato attorno a sé un altro chitarrista di estrazione rock, John Cipollina, e il cantante e armonicista Jim Murray. A questo nucleo si unì un altro chitarrista, Gary Duncan, e la formazione fu completata dal bassista David Freiberg e da Greg Elmore alla batteria. Il progetto iniziale fu compromesso dall’arresto, per questioni legate alla droga, di Valenti che rimase in carcere per un anno e mezzo, ma i cinque membri rimasti proseguirono comunque a esibirsi nelle atmosfere psichedeliche della città californiana, spesso affiancando altri gruppi della scena musicale e conquistandosi un buon seguito di ammiratori. Parteciparono fra l’altro alla tre giorni del 4-6 febbraio 1966 assieme ai Jefferson Airplane, e si esibirono in occasione del Monterey Pop Festival, nel giugno dell’anno successivo.
Benché fossero considerati appartenere – assieme ai Jefferson Airplane e ai Grateful Dead – alla “prima generazione dei gruppi di San Francisco”, i Quicksilver non raggiunsero mai la popolarità delle altre due formazioni, in parte anche perché agli inizi della loro carriera si rifiutarono di produrre materiale registrato. Si decisero a incidere il primo album a fine 1967, quando anche Murray aveva abbandonato il gruppo per dedicarsi allo studio del sitar. Il disco d’esordio, Quicksilver Messenger Service, risente delle influenze degli Electric Flag e dello stile chitarristico di Mike Bloomfield, e in generale non rispose alle aspettative del pubblico. Di ben altro calibro Happy Trails, che mostra il duo chitarristico Cipollina-Duncan in forma smagliante; registrato in larga parte al Fillmore East e al Fillmore West, l’album è collocato dalla rivista Rolling Stone al posto 189 della classifica dei 500 migliori album di tutti i tempi.
Susseguentemente, Duncan abbandonò il gruppo sostituito dal tastierista Nicky Hopkins, e con la nuova formazione venne inciso Shady Grove. Dal 1970 il gruppo andò incontro a vari rimaneggiamenti. Dapprima ritornarono Valenti – dopo una lontananza di tre anni – e Duncan; e la rinnovata formazione registrò Just for Love. Il successivo What About Me vide la presenza di Mark Naftalin al posto di Hopkins. In seguito a lasciare furono Cipollina e Freiberg (quest’ultimo, dopo una detenzione di un anno per possesso di marijuana, sarebbe confluito nei Jefferson Starship). Perciò i Quicksilver Messenger Service dovettero essere integrati dal bassista Mark Ryan e dal tastierista Chuck Steales, e con questa formazione registrarono Quicksilver e Comin’ Thru. I due dischi ebbero un riscontro insoddisfacente, e così il quintetto decise di sciogliersi. Nel 1975 Valenti, Duncan ed Elmore incisero assieme a Skip Olsen al basso e W. Michael Lewis alle tastiere l’album Solid Silver, giudicato monotono e poco rilevante anche se non privo di momenti di ricchezza emotiva.
Gary Duncan a due riprese cercò di ridare vita ai Quicksilver: la prima volta nel 1987, con la produzione dell’album Peace by Piece, e a metà degli anni novanta – dopo la morte di Cipollina e Valenti –, quando venne messo in commercio Shape Shifter, ma in entrambi i casi senza grande fortuna."
(from wikipedia)





Immaginiamo per un attimo la San Francisco del 1969.Nello stesso anno e nello stesso luogo tre gruppi fondamentali producono tre pietre miliari indimenticabili: i Jefferson Airplane danno alla luce “Volunteers”, i Grateful Dead di Jerry Garcia il bellissimo “Live-Dead” e i Quicksilver Messenger Service il fantastico “Happy Trails”. Questi ultimi riescono a fondere la raffinatezza onirica delle session dei Grateful Dead, i suoni tipicamente ‘60s di Grace Slick e compagni, in particolare quelli del loro “After Bathing at Baxter’s”, ed un certo “hard-blues” caro a Cream e Ten Years After. Il tutto ovviamente con quel tocco di originalità che rende “Happy Trails” tanto importante.
Si accennava al fatto che il materiale dell'album fosse stato ricavato soprattutto da performance live, due in particolare: dai Fillmore East e West, anche se è difficile dire quali parti del disco dall'una e quali dall'altra. La prima sorpresa vera e propria arriva però da una scelta strategica: la decisione di dedicare tutto il primo lato a una sola canzone: "Who Do You Love?" di Bo Diddley. Trattasi della famosa "Who Do You Love Suite", di ben venticinque minuti e rotti. L'apertura è affidata quindi alla versione blues-rock caracollante del medesimo brano per poi proseguire con la prima variazione sul tema, "When You Love", in realtà caratterizzata dal lungo assolo di Duncan: e quando qui si parla di "assolo", sarebbe giusto dimenticare una volta per tutte i Van Halen o addirittura gli Allan Holdsworth di turno, quelli non erano certamente tempi e luoghi - la California nei Sixties - perché una sola nota andasse sprecata, tutto era al servizio dell'espressione o del viaggio in tal caso. Con "Where You Love" siamo infatti al primo vero capolavoro: un'improvvisazione per chitarre striscianti, in pratica la fase più introspettiva del trip, seppure magicamente accompagnata dall'interazione magnetica col pubblico. Difficile da definire: arte contemporanea? La realizzazione dell'happening definitivo? Lo si può immaginare il pubblico lì, a incitare la band e trasmetterle il pathos necessario alla risalita (naturalmente non c'era bisogno di parlare, tutto avveniva a un livello extralinguistico). E infatti "How You Love" non è nient'altro che un'esplosione estatica, stavolta segnata da John Cipollina. Con "Which Do You Love" e il basso di Freiberg torna un po' di calma seguita dal reprise del motivo portante, "Who Do You Love, Pt. 2", questa volta però suonata con maggiore "consapevolezza".
Ma i QMS hanno deciso di attingere da Bo Diddley ancora una volta, e quindi la seconda parte comincia con una versione stonata di "Mona", delle chitarre acide che più di così c'è solo "Dark Star". Fa capolino "Maiden Of The Cancer Moon", un grande pezzo di rock psichedelico che però ha la "sfortuna" di fare da ponte a un altro capolavoro dell'acid-rock: "Calvary". Dove siamo finiti improvvisamente? In un western? Sì, ma in uno spaghetti western, e cioè con tanto di orchestra morriconiana (timpani, gong, campane, strani strumenti a percussione ecc.) ad accompagnare le evoluzioni di Duncan che poi finisce - raggiunto l'apice - in uno stato mentale al confine con la catalessi - apparentemente, in realtà ricco di motivi subliminali che hanno a che fare semmai con la fine di qualcosa. "Happy Trails", quindi, la sigla finale del programma televisivo di Ray Rogers (e dell'album), i cowboy sono finiti davanti al bancone di un saloon - e finalmente bevono spensierati - oppure sono di ritorno da un altro viaggio, a cavallo del clip-clop percussivo. Il viaggio è finito, e con lui anche gli anni '60. Restano le emozioni, e la grande musica...
MAGAR


Lato A 
Who Do You Love? part 1 - 3:32 (Ellas McDaniel)
When Do You Love - 5:15 (Gary Duncan)
Where Do You Love - 6:07 (John Cipollina, Duncan, Greg Elmore, David Freiberg)
How Do You Love – 2:45 (Cipollina)
Which Do You Love - 1:49 (Freiberg)
Who Do You Love part 2 - (McDaniel)
Lato B 
Mona - 7:01 (McDaniel)
Maiden of the Cancer Moon – 2:54 (Duncan)
Calvary - 13:31 (Duncan)
Happy Trails - 1:29 (Dale Evans)


John Cipollina - chitarra
Gary Duncan - chitarra, voce
David Freiberg - basso, chitarra, voce
Greg Elmore - batteria, percussioni

QUI L'ALBUM

venerdì 14 marzo 2014

A SUON DI BLUES 8^ PUNTATA: OUT OF BLUE - Sulle tracce di Ulisse

Mi rendo conto che questo blog vive sempre più di luce riflessa, che di propria iniziativa..Ma un po' il lavoro un po' gli spam che hanno invaso in maniera diffusa i miei blog, impedendomi di costruire i post con calma senza affrontare slalooms tra una fottuta pancia che mi balla davanti o viagra culi tette e mille altre porcate, mi impediscono di postare tranquillamente sui miei blog..
Si parlava di luce riflessa, che è una bella luce, la luce intima della luna, la luce degli ululati dei lupi, ma anche di inense notti d'amore o di struggenti storie di ordinaria tristezza.
Anche questa puntata di 'A suon di blues' ospita profonde e interessanti riflessioni sul blues dei miei amici blogger...    






Out of Blue – Sulle tracce di Ulisse (benvenuti al sud)



Naviganti raminghi tra Mediterraneo e Mali.
Imbarchiamo un altro naufrago, e non potevamo farne a meno: Bart, autore di Viaggiatori nella Notte e curatore del blog Dustyroad. Amico – virtuale, ma molto meno di altri in cane ed ossa – di vecchia data.
Attenzione: qui non è luogo di elogi ad Eric Clapton o elegie per B.B. King; qui sono banditi l’accademismo e lo storicismo.

Contributi di:

Evil Monkey

Massimiliano Manocchia

Vlad

Bartolo Federico

immagine di copertina a cura di Mr. Hyde

***

Bart: Il blues è refrattario come gli anarchici.
Nella scrittura, duri e puri, lo sono stati Cèline, Bukowski.
Nella musica, Captain Beefheart è quello che, tramite la ruvidità del blues, ha mostrato al mondo il suo delirio interiore. Per questi artisti potete usare qualunque aggettivo, insolenti, provocatori, eccessivi, geniali, vedrete che gli calzerà a pennello.
Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.
È la sua reazione a quello stato che non sopporta più, che genera il blues. Il blues non è la lista della spesa, i buoni o i cattivi, il bianco o il nero. Il blues è la desolazione senza sbocco, il sapere che nessuno oltre te, può fare qualcosa per la propria esistenza. Per questo il blues non è di sinistra. Come invece hanno cercato di farci intendere i critici musicali di quell’area politica, mettendone in risalto solo la condizione sociale, da cui scaturiva. Il blues si è sempre abbeverato nella disperazione, nel pessimismo. Il blues è abdicazione al potere. Il blues non è rivoltoso. Chi lo ha pensato si è sbagliato di grosso. Un tempo ho fatto anch’io questo errore. Può arrivare da qualunque parte, il blues. Ma chi lo canta ha bisogno di cose materiali, ha bisogni veri. Perché è in quel momento che ha cessato di essere rispettabile all’occhio del mondo. Il blues del Delta è musica pura, di uomini puri, che ancora non si sono massificati, perché suonavano se stessi. A quel tempo il blues era tutto istinto. E l’istinto è poesia. Almeno per quanto mi riguarda. Poi il blues come ogni cosa che cammina, è diventato qualcos’altro. Ma non sta a me giudicare.
Safe As Milk, ha dentro di se quella purezza primordiale.

E.M.: Cosa c’è veramente di primordiale nel blues?
Ripenso ad Ulisse, a Schwingungen degli Ash RaTempel; e ad una riga scrittami da Mr. Hyde per mail “Mi sono lasciato suggestionare da Omero e dai contenuti 'blues' dell'Odissea, il girovagare, le donne, il vino e il loto”.
A suo tempo scrissi qualcosa sul disco degli Ash RaTempel:
“Quando la melodia getta finalmente l'ancora, i naufraghi del cosmo trovano la loro casa. Una voce suadente, fascinosa, carezzevole; che non è più il subdolo canto della Canzone delle Sirene di Buckley, ma la melodia che Odisseo udì appena poggiato il piede sulla spiaggia sassosa di Itaca.
Il canto di casa.”
Empatia?
Allora, quanto è “blues” questa Odissea? C’è il vagabondare: con una meta, ma senza una strada. C’è una donna da ritrovare, che lungo il percorso però viene tradita, perché le circostanze sono forti e la carne eternamente debole. C’è il vino, c’è l’oblio, i compagni di viaggio.
Eppure faccio un’enorme fatica ad associare in qualche modo la mitologia classica alla mitologia blues, che affonda le radici in un passato molto più prossimo e in un territorio che tutt’al più può essere quello del bacino del Congo, piuttosto che del Mediterraneo.
Non è la “primordialità” di Odisseo la stessa del blues, con buona pace di Tales Of Brave Ulysses dei Cream, una minima coincidenza puramente accidentale.
Forse è primordiale per tecnologia (o non tecnologia), anzi forse è quel suo essere intrinsecamente anti tecnologico.
O magari è primordiale nella voce, nella forma più che nei contenuti, nell’espressione, nel lessico con la sua fissità da fossile vivente.
O forse abbiamo solo scelto l’Ulisse sbagliato.(Massi gradirà questo assist…)
E poi c’è una cosa che vorrei sapere da Bart: è possibile un blues svincolato dal “sud”?
Di qualunque “sud” si tratti: geografico, politico, sociale. Dovunque si trovi.
South Side Blues Jam di Junior Wells suonerebbe altrettanto bene come North Side Blues Jam?
Il profondo “sud del Sud dei santi”.
E’ lì che nasce tutto, anche nella nostra piccola penisola?

Bart: Il blues ha tempi lenti, dilatati. A dispetto dei suoi esecutori, si muove poco è pigro, sonnecchia svogliato di fronte alla palude, o al grande fiume, o scrutando il mare. È nelle corde di chi nasce, dimenticato dal mondo nei luoghi dove il tempo sembra non esistere, dove tutto viene rimandato a dopo, dove non c’è molto da fare, che il blues è nato. Nella polvere del sud, nelle comunità rurali della gente di colore. Il nord è solo la terra promessa. Dove c’è lavoro pagato per tutti (una volta)…
Il blues è nato nei campi di cotone dove si lavorava duro e il padrone non pagava”. (Sonny Terry)
Il blues per come lo sento nella mia anima, resta ancorato ai paesaggi, ai colori, alle sensazioni, che solo il sud possiede. Poi è possibile anche un blues fuori da quei luoghi. Certo che è possibile. Ma suona in un altro modo. E’ un'altra cosa.  Vlad la scorsa volta ha fatto la differenziazione tra quello che per lui è blues, è quello che non lo è. Parlava in prevalenza di bianchi, se non erro. Ma chi è più blues tra: Blind Willie Mctell, e Sleepy John Estes?
Il blues del delta è musica ostica ,difficile da digerire, non è adatta al mercato radiofonico. Non tutti hanno la pazienza di ascoltare quei suoni sghembi, ossessivi, che non seguono alcun tempo,e vanno a ruota libera. Quando si parla di blues, si parla sempre del blues elettrico, per giunta fatto dai bianchi. Ma quella è la Musica Blues. Non è il Blues. Il blues tradizionale non si può trascrivere, è strano, dopo tre pezzi ti rompi i coglioni. Certo se non c’erano i musicisti bianchi, anche Robert Johnson non sarebbe diventato una leggenda. Ma quanti fruitori di musica hanno davvero ascoltato Robert Johnson? Il blues tradizionale è quello meno conosciuto, il più declassato.
Per questo è nato Dustyroad. Scrivo i miei racconti con la speranza che chi legge, si possa innamorare di quei pezzenti, e andare anche per un solo attimo ad ascoltarli. Il mio compito è questo. In nome del Blues. Del sud.

Massi: Eccome se gradisco l’assist, caro Evil. Vorrei prima però soffermarmi su un’affermazione di Bart che trovo tanto sorprendente quanto vera: “[…] il blues non è di sinistra.” Sorprendente perché va senza dubbio contro corrente rispetto alla convenzione (o luogo comune) che vorrebbe la cultura appannaggio della sinistra; vera perché se oggi, nel 2014, siamo ancora qui a parlare di blues - e non, ad esempio, di ragtime o di twist - la ragione va forse ricercata proprio in quel suo non essere ideologico che lo rende universale: pur mutando, o meglio, proprio in virtù della sua capacità di mutare, il blues va nutrendosi della propria continuità, della propria “adattabilità” al momento, ben lontano dalle banalizzazioni modaiole del carpe diem o da certo “compassionismo” estetico, tanto in voga in una società come la nostra dove il politically correct è ancora d’obbligo. Il bluesman – il vero bluesman, intendo – se ne fotte del politically correct e se ne fotte anche della legge. Cito ancora Bart: “Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.”
Ed è qui che raccolgo l’assist fornitomi da Evil per spostarmi su un terreno che mi è caro tanto quanto quello della musica: la letteratura.
Splendide le suggestioni omeriche di Mr. Hyde, e forse il collegamento tra “mitologia classica” e “mitologia blues” potrebbe trovarsi in quello che ritengo essere il libro più importante del Novecento e che delle peregrinazioni di Ulisse dà una lettura parodistica, ricostruendo in chiave modernista l’intera epopea omerica. Una delle innumerevoli chiavi di lettura di Ulysses è il neanche troppo velato sberleffo al vittoriano “eccesso di civiltà.” Mr Bloom è un outsider, è l’eroe moderno colto “nella sua reale miseria.” Umana, aggiungo io. Joyce recupera un mito classico (quello, appunto, di Ulisse), ne decostruisce l’ellenicità e lo trasforma - parodiando un altro mito, quello dell’ebreo errante - nell’eroe moderno. Lo sottopone a continue umiliazioni, sfide e derisioni; lo colloca in situazioni complicate e fastidiose; ce lo mostra nei suoi momenti più vulnerabili, umani, ordinari (mentre defeca leggendo il giornale, ad esempio) e ci regala il flusso costante dei suoi pensieri, guidati dal bordone di una malinconia incessante e, a tratti, dolcissima. Come il suo creatore, ebreo di origini ungheresi in terra d’Irlanda, Mr Bloom è un esiliato in patria. I continui richiami alla fascinazione per l’oriente nei suoi monologhi hanno la stessa profondissima essenza delle “lamentazioni” del delta del Mississippi.
Costretto a soffrire il trauma emotivo e psicologico del tradimento della moglie, dell’antisemitismo, di un’esistenza vissuta ai margini della società, Mr Bloom sostituisce lo stoicismo greco con l’umana imperfezione. Joyce ne dettaglia le più banali attività quotidiane e mette in evidenza, talvolta con tocco di compiaciuto feticismo, peccati e tabù dell’essere umano: defecazione, minzione, golosità, masturbazione, voyeurismo, alcolismo, sadomasochismo, ecc.
Se – in aggiunta a quanto teorizzato nelle precedenti conversazioni – il blues è anche uno stato d’animo, allora Mr. Bloom è uno dei personaggi più blues di sempre.
Non credo sia possibile un blues “svincolato dal sud,” se per “sud” intendiamo i confini connotativi tracciati in precedenza da Vlad, e condivido l’acutissima distinzione di Bart tra “blues” e “musica blues” (bellissimo tema, peraltro, da sviluppare); tuttavia un blues iperboreo è possibile, ma sarà sempre derivativo, e gli Ash Ra Tempel sono lì a dimostrarlo.
Alla stregua dell’apprendista che, all’inizio del suo percorso iniziatico, viene posto davanti al bivio tra “via umida” e “via secca”, Il blues(man) rappresenta l’eterno dubbio dell’uomo che non ha ancora deciso se seguire il “canto di casa” o lasciarsi avvolgere nel dolce oblio del “canto delle sirene.”

Vlad: il blues non è di sinistra. Bene. Il blues non è rivoltoso, non è di sinistra. Non è attivo. Son d’accordo: infatti appartiene a chi ha già perso. Come ho già detto: si cerca di riguadagnare la propria patria (la propria cultura) nelle terre del vincitore; spesso con gli strumenti stessi del vincitore. I canti di guerra non sono blues; le trombe dell’attacco di cavalleria nemmeno; gli inni di vittoria neanche. Al blues appartiene la sconfitta, inevitabile. In un certo senso: il blues si crogiola nella sconfitta e nell’elegia; non gli è indifferente, tuttavia, lo sberleffo per il vincitore.
Blues e sud. Nei limiti tracciati sopra: se al blues appartiene la sconfitta, per Sud occorre intendere gli sconfitti, gli esiliati, gli immigrati, i senza patria. I nordici emigrati a Pittsburgh avevano i loro canti di lavoro blues: erano Sud anch’essi. Andrew Kurely (operaio slovacco immigrato autore di American land) è Sud e blues; i Blues Brothers no. Andrew Kurely, come Robert Johnson, è blues; i Blues Brothers fanno musica blues.
Odisseo. Ulisse alla corte di Circe o di Nausicaa ha improvvisato sicuramente canti blues. Ne ho la certezza. Appena rientrato a Itaca avrà deposto l’elegia e cantato un inno di guerra: era a casa, infatti.
I Greci, distrutti dall’economia di rapina, esiliati in patria, suoneranno blues. Presto intoneremo blues anche noi.
A margine di Odisseo. C’è un libercolo interessante in giro: Felice Vinci, Omero nel Baltico. Più che un libro è una affascinante congettura. In esso l’autore ipotizza che l’Iliade e l’Odissea fossero originariamente ambientate nella regione baltica (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia) e quindi, dopo la migrazione dei popoli nordici verso il Sud (lungo le direttrici dei fiumi russi), riadattate al contesto mediterraneo. Omero sarebbe, perciò, un bluesman situato a Sud che rimpiange elegiacamente il Nord; e in tal caso il Nord sarebbe davvero un Sud.
Una proposta: considerare il blues come l’elegia cantata dei poveri, dei diseredati, dei senza patria, dei nostalgici. Dei sudisti dell’anima.


PLAYLIST

Captain Beefheart & His Magic Band - Safe as Milk (1967)
Cream - Tales of Brave Ulysses
da: Disraeli Gears (1967)

Junior Wells - South Side Blues Jam (1970)

mercoledì 5 marzo 2014

CARLOS SANTANA, MAHAVISNU JOHN MCLAUGHLIN - LOVE DEVOTION SURRENDER

Comunicazione di servizio per gli appassionati di jazz e rock: su La Scighera troverete la versione CD di LOVE DEVOTION SURRENDER. Su gentile invito di Magar ho scritto qualche riga su quest'album. Per tutti quelli che vogliono saperne di più..







mercoledì 26 febbraio 2014

PACO DE LUCIA

Un brano gioioso e spensierato per ricordare Paco da Lucia - il flamenco è la gioia e il piacere vita -, gli sarebbe piaciuto così. Il grandissimo chitarrista  è scomparso ieri. Qui in trio con Mc Laughlin e Di Meola, con i quali ha inciso diversi album e ha suonato in innumerevoli concerti.
Tratto da "The Guitar Trio" - 1996 è il brano che propongo.


VIDEO - Paco De Lucia, Al Di Meola, John McLaughlin - Midsummer Night


lunedì 24 febbraio 2014

A SUON DI BLUES, 7^ PUNTATA: OUT OF BLUE - UN COLLAGE

Pubblico con vero piacere questo post d'insieme ideato da Evil Monkey, a guisa di collage di pensieri sparsi e considerazioni varie. Alla fine troverete un video ispirato dall'argomento, dalla musica e dalle suggestioni scaturite dai contributi degli amici bloggers che hanno partecipato alla sua creazione.     


da BLUES AND SIRENS by Mr.Hyde 

    Out Of Blue - Un collage

Ovvero liberi percorsi per strade secondarie. Accogliamo viandanti e viaggiatori, autostoppisti e musicofili.
A questo giro hanno collaborato:


Massimiliano Manocchia (Detriti di passaggio)


Mr.Hyde (Cassetti Confusi)
               (My Guitarists) 
               (Il Buio e le Intenzioni) 
Mr. Hyde che ringraziamo, oltre che per i contributi scritti, per il video e le immagini che trovate in questo post.
***

E.M.: La precedente conversazione si è chiusa con una proiezione futurista del blues sulle autostrade dei Kraftwerk.
Riprendo dunque il filo quindi dai territori impervi del kraut-rock, ma lo faccio in modo meno fantasioso di Massi e mi limito a citare un brano da Schwingungen degli Ash Ra Tempel, Light: Look at your Sun, uno dei massimi esempi di blues incisi al di qua dall'Atlantico. E' il pezzo che Morrison e Buckley avrebbero sempre voluto cantare; e a dirla tutta ci sono andati vicino, (sopratutto Tim). Eppure quella vocalità dimessa, fatalista, di John L. accompagnata da quel notevole chitarrista che fu Gottsching, genera una foschia violacea ammantata di blue a cui ogni appassionato faticherà a resistere.
Non vado oltre, perchè in realtà vorrei rileggere l'intervento di Vlad, perentorio quanto chiaro nelle definizioni. Lo condivido in buona parte, mi piace l'ardire di citare Afrika Bambaata, Galeano e la “lavandaia italiana”. Cos’è per lui il blues:

“È prima dell’accademia. È la terra.
I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues.
Il blues appartiene agli sconfitti.
Il blues all’opposizione. Contro il potere, inevitabile.”

Scrivi blues, leggi folk.
Ma non sarà - e risparmiatemi le critiche per la superficialità dell'assunto - che il blues sia il folk dei neri, e il folk il blues dei bianchi?
Se gli orizzonti culturali, geografici e l'estrazione sociale degli esecutori sono così sovrapponibili, allora per trovare una discriminante dobbiamo davvero tornare al pentagramma?Le blue note, le 12 battute, la struttura AAB…
Alla fine dipende magari da come si afferra uno strumento. Nella presa del manico sta tutto. Del simpatico Big Jim Courier dicevano che impugnava la racchetta da tennis come fosse una mazza da baseball; con violenza e scarso talento tecnico.Il nero strappa chitarra e armonica dalle mani degli europei e le suona sovrapponendo la sua cultura musicale a quella per cui quegli strumenti erano stati fabbricati. Folklore sovrapposto ad hardware sonoro.Si direbbe d'istinto, senza metodo;con scarsa tecnica, inventando per necessità.
Mother of invention?
Lo strisciare un coltello sulle corde per riprodurre i miagolii degli strumenti monocordi tribali. E se non c’è il coltello? Va bene anche il collo di una bottiglia. Ecco l’invenzione. E la necessità.
Soffiare in un armonica diatonica per riprodurre una scala cromatica. E le note mancanti? Si soffia in modo da piegare appena l’ancia, ed ecco fatto. Alla lunga lo strumento si rompe, ma la nota si trova.
Necessità, invenzione.
Sarà così, o stiamo ancora perpetrando il mito del buon selvaggio che bambinescamente soffia coi sui labbroni nella Marine Band della Hohner e la trasforma in un piccolo sax tascabile? E’ davvero frutto di un approccio infantile, sregolato, estemporaneo e un po’ bizzarro? Chi si azzarderebbe a dire lo stesso del jazz?
Queste sono riflessioni che facevo mentre mi rigiravo tra le mani alcuni vecchi LP della gloriosa serie Folk della Fonit-Cetra,quella collana diretta da Giancarlo Governi per cui nei tardi anni '70 sono stati pubblicati numerosi album, tra cui senza dubbio ci sono anchele canzoni della “lavandaia” citata da Vlad.
Non so se quelle pubblicazioni siano mai state ristampate in CD; i vinili a volte li potete reperire in qualche negozio di seconda mano, forse anche a qualche vinylmania, pur se non sono considerati oggetti molto “cool”.
Tra i vari che ho soppesato ho optato per Gli alberi crescono alti (canzoni di lavoro, d'amore di guerra e di lotta delle Isole Britanniche) di Fred Lane e Kjell Westling, con una bellissima cover illustrata dagli Arcani Maggiori da farlo sembrare qualche oscuro progressive mistico.
Che c'entra col blues? Forse nulla, è un grande album involontariamente freak come fossa la Incredible String Band. Però è tutto quello che Vlad cita come "essere blues" e con cui sono d'accordo.

Vlad: Allora: un esempio.
Gli africani se ne stanno nella loro terra; qualcuno suona con strumenti indigeni; altri con strumenti influenzati dalla matrice araba islamica…
La loro musica può essere vincente, dolorosa, di vittoria, celebrativa, ma rimane la loro musica.
Gli africani vengono razziati, la loro cultura, di fatto, distrutta.
Essi cercano di ripristinarla in condizioni avverse, culturali, sociali, riadattando gli strumenti e formalizzando il tutto secondo le teorie dei conquistatori.
La lama del coltello, il collo della bottiglia, le scale…
Ecco il blues.
Allo stesso modo: Pizarro distrugge gli Incas; la loro cultura è di fatto dispersa.
Settant’anni dopo un discendente di Atahuallpa (ultimo sovrano Inca ucciso da Pizarro), il grande poeta inca (ma spagnolo naturalizzato) Garcilaso de la Vega, cerca di evocare la propria terra con gli strumenti linguistici, culturali e politici del conquistatore.
Una operazione blues.
Non so che chitarre o flauti  avessero gli Incas. Sorge una domanda: i peruviani oggi fanno il blues? Ricreano in terra ostile, con strumenti stranieri, le melodie Inca?
E i messicani fanno lo stesso con gli Aztechi?
E gli aborigeni australiani? E i persiani?
E i calabresi che suonano la pelle della capra che fanno? I calabresi, i Greci, la tragedia (detta canto del capro) … che musica avevano i Greci nella tragedia? Cosa sopravvive oggi delle culture sconfitte, cancellate, e viene riproposto (anche involontariamente) con diversi mezzi, quelli attuali, quelli dei vincitori?
C’è da indagare per decenni … Siria, Sardegna, Normandia, Yemen, Australia, Galles …
Il blues afroamericano è così famoso solo perché vicino a noi e miracolosamente vicino ai registratori vocali di Lomax e compagnia. In caso contrario (afroamericani razziati nel 1500 e peruviani sin nel 1800 e passa) non avremmo mai avuto Blind Lemon Jefferson o Leadbelly, ma una pletora di sudamericani che suonava strumenti Inca riadattati … Eric Clapton avrebbe schitarrato col suo nuovo gruppo: Balseros del Titicaca …
Il blues (quello classico e riverito) ha avuto una fortuna sfacciata.

Massi: Ah, gli Ash RaTempel: mi hai colpito in un punto debole… che mi strappa ovvietà adolescenziali: è una delle mie band preferite (l’ho detto, chiedo venia). E quel John L. che nella vocalità somiglia non poco a un altro John L., arrivato quasi un lustro dopo a minacciare l’anarchia nel Regno Unito, per poi trasformarsi in un muezzin che intona cupi mantra psicotici.
Inevitabile che si debba parlare anche di folk. Nessuna critica per la “superficialità dell’assunto”, poiché anche un’eventuale definizione di folk deve per forza possedere i connotati delineati da Vlad. Forse in parte sì, dobbiamo tornare al pentagramma, a patto che si comprenda che il blues non è trascrivibile. O meglio, lo sarebbe anche, ma se provassimo a suonare un blues eseguendo pedissequamente, vale a dire col “rigore esecutivo” cui si accennava, la trascrizione, il risultato sarebbe tutto fuorché blues. Mi spingo oltre: se inseriamo un brano qualsiasi, anche di musica classica, in uno dei tanti software che “suonano” i pentagrammi, avremmo un risultato ottimo: per quanto mancante di feeling (e questo può metterlo solo un esecutore “umano”), l’output sarebbe comunque ottimale. Ma se proviamo col blues, questo non accade; si ha quasi l’impressione che esso non si lasci “catturare” in modo definitivo, che non sia mai uguale a se stesso, che si nutra di micro-variazioni di ritmo, shifting di accenti non codificabili sul pentagramma; a volte il blues sembra essere quel tipo di tensione emotiva che sfugge a qualsiasi tentativo di codifica.
Il tentativo di riappropriazione della propria cultura da parte di un popolo ‘deportato’ in terra straniera risente necessariamente delle “influenze” culturali e sociali della terra che lo “ospita” (sfruttandolo), e il blues non fa eccezione. È vero, come afferma Vlad, che  ha avuto una fortuna sfacciata, avendo in qualche modo tratto vantaggio dalla tecnologia, ma credo sia l’ultima grande forma di musica folk prodotta dall’umanità. Posto che si tengano fuori dal discorso la house e la techno, col suo corollario di cosiddetta “cultura rave” che, personalmente, considero altrettanto “folk.” Scontato, allora, ma da sottolineare, il collegamento precedentemente accennato ai Kraftwerk, ormai indiscussi precursori (consentitemi un luogo comune, per una volta) della techno.
E forse, oggi, il blues non lo si fa più “strisciando coltelli sulle corde”, né mettendo bene in evidenza le blue notes o la struttura AAB, e a dire il vero già alcuni bluesmen appartenenti alla “classicità” – mi viene da citare ad esempio Lightnin’ Hopkins, benché non sia il solo – avevano fatto più di un tentativo per rivitalizzare la loro musica uscendo, ancorché di poco, dagli stereotipi sonori e strutturali già consolidatisi da qualche decennio.
Ecco quella che mi sembra una buona domanda: come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?

E.M.: “Come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?”
Ma io credo che quelle sono almeno 40 anni che non ci sono più. Non c’erano più già quando Clapton clonava l’assolo di Otis Rush su All your lovin’.
Però non per questo manca autenticità. Che magari non è sempre sinonimo di grande musica.
“Autentico è ricreare originalmente”, scrive Carmelo Bene citando Foscolo.
Alcuni dei blues migliori – e autentici - li ho sentiti per strada, tra i buskers.
Uno era un giapponese enorme che suonava una fantastica National Steel. Si faceva chiamare The Fujii e vendeva il suo CD autoprodotto su un marciapiede sotto il portico di una banca, 10.000 lire: Anyway What Time Did You Get Up This Morning. Uno di quegli slide solitari e stonatissimi, tirate di sei setti minuti, trombettisti free, bordoni di armonica, registrato per strada.  Una favola… Crecatelo in giro, ne vale la pena.
Gli altri erano un trio di svizzeri con un batterista che batteva su una specie di bidone del rusco e uno che suonava un manico di scopa infilato in un secchio. L’unico che aveva uno strumento era il chitarrista. Si chiamavano Hell’s Kitchen e suonavano quei groove ipnotici alla John Lee Hooker. 










Ecco questi due esempi sembrano proprio schegge di qualche cultura mista, di rifugiati, di evasi. Apolidi. Cari a Vlad.Eh, sì, il blues è stato fortunato. Ma si è meritato tutto quanto.

da BLUES AND SIRENS by Mr.Hyde

















Corollario

Mr. Hyde: Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio. [Jack Kerouac – nota su Mexico City Blues].

E’ vero: il blues è un’entità spirituale che vaga tra un’anima e l’altra. Ne sceglie una a caso e comincia a tormentarla. Aleggia nell’aria, preferisce quella mefitica delle metropoli, città abbandonate come, per fare un esempio, Detroit, un tempo capitale dell’auto, oggi deserto urbano. Ma anche gli acquitrini, il Mar Nero, i giardini di arance sommersi dalla lava dell’Etna. Desolazione. Passato. [Hyde]

Nobody know the other side of my house, my corner where I was born, dusty guitars. [Jack Kerouac –Mexico City Blues, framm. da 127h Corus].

Sono convinto che la beat generation ebbe come riferimento il blues e lo Zen. Forse non ne fu consapevole... Kerouac però scrive: Charlie Parker Assomogliava a Buddah. [Jack Kerouac –Mexico City Blues, framm. da 239h Corus].

Ma c’è un altro lato non proprio Zen, del Blues, sanguigno e terreno:
“Il blues è un uomo in una notte gelida, che cammina per un’eternità, di luogo in luogo, Sutton Place o Bowery, vivendo. No! Non vivendo. E’ quella memoria viva ma non condivisa, che vive la vista che vediamo viva e vivente. Contenuto? Perché ridicolo? Donne su cuscini abbracciati in piscio pisciato, piscio schizzato nel rigagnolo non o perfino non come il suo disconoscente getto che imbeve l ’inguine vestito e filtra attraverso i suoi resti abbigliati. Puzzando nel suo angolo moccioso che si trasforma in carta raramente in cambio della sua ragione, alcool, risposte della vita agli onniscienti, le audacie con le donne, il vino, i canti, le danze e gli stordimenti. Risuonano vecchie azioni fredde, egli respira e vive momenti no, di stravaganti momenti benedetti d’amore detti d’amore, tutte menzogne, menzogne di non-verità reciproche che sfortunatamente si sono unite e hanno odiato le verità universali, dentro e fuori, a seconda che si presuma che lui non è una lei. Dannazione a tutto blues; Avvitato al gelido marciapiede fondente di pietra audacemente abbracciata, erezione di cemento, immaginato morbido solo per ritardate erezioni di solitudine che sono diventate femminili e ti rispondono umide, calde lacrime,non troppo allontanato dal suo comune denominatore, urina ghiacciata che fonde alla audace morte bollente che si aggrappa alla vita per amore al pensiero di una risposta, sia sulla creta, sulla terra o sull’asfalto io osservo nella mia ebbra febbrile ricerca di un vero inguine femminile, che mi vuole come io voglio lei,senza mai odiarmi perché abbiamo trovato rifugio e soddisfazione come due pietre ubriache che si riscaldano fianco a fianco dentro e fuori della nostra debilitata idea della scopata di lati opposti.” [da “Peggio di un bastardo”– Charles Mingus]

E.M.: C'è una musica blues. Ma c'è anche una “prosa” blues? Cosa la rende così? Il lessico, o meglio il “gergo”'? La (mancanza di) punteggiatura? I soggetti? Più ecumenicamente, tutte e tre le cose? La letteratura blues è la letteratura beat. O meglio il beat è blues “sotto copertura”'o assomiglia di più all' improvvisazione di un bopper fatto di droga?

Mr. Hyde: Blues genere letterario? Prova a dirlo ad uno di quei diavoli ciechi ! Piuttosto linguaggio blues usato in letteratura. Blues trasversale. (che brutta parola..) Potremmo parlare di elementi blues inseriti nella prosa.
Però quello che piace del blues è che non è completamente definito e definibile. Il poter aggiungere qualcosa di personale, come in un racconto non scritto. Certo, il linguaggio, gli argomenti (girovagare, donne, alcool, droga, la notte) gli stati d’animo (rabbia, tristezza, rassegnazione) i luoghi, sono elementi caratterizzanti, ma è il ‘colore’ (non so come definirlo) quell’oscuro affascinante disagio che avverti anche ascoltando Pretty As You Feel dei Jefferson Airplane, che non è dichiaratamente un blues. Forse un blues in acido…


Playlist

Ash Ra Tempel - Light: Look at your Sun
da: Schwingungen 1972

Fred Lane e Kjell Westling - Gli alberi crescono alti (canzoni di lavoro, d'amore di guerra e di lotta delle Isole Britanniche) 1977

Otis Rush -  All your lovin’ 1958

The Fujii - Anyway What Time Did You Get Up This Morning 2001(?)

Jefferson Airplane - Pretty as You Feel  
da: Bark (1971)

VIDEO BY HYDE







domenica 12 gennaio 2014

JOHN MCLAUGHLIN E LA MAHAVISHNU ORCHESTRA - BIRDS OF FIRE

Comunicazione di servizio per gli appassionati di jazz- fusion: su La Scighera troverete la remastered version dello storico Birds Of Fire di Jojhn McLaughlin e Mahavishnu Orchestra. Su gentile invito di Magar ho scritto qualche riga su quest'album. Per tutti quelli che vogliono saperne di più: